Il Lago di Pilato, da Foce, per il Piano della Gardosa

 

Il cuore dei Sibillini è un piccolo lago naturale, a quasi 2000 metri di altezza, incastonato in cima ad una valle, nel bel mezzo di un anfiteatro di creste rocciose e sfasciumi dal neanche tanto vago sapore dolomitico.
Il Lago di Pilato, famoso per essere l’unico lago naturale delle Marche, famoso per ospitare, ancora unico ma questa volta  al mondo, il chirocefalo del Marchesoni, minuscolo crostaceo per la scienza annoverato col nome Chirocephalus marchesonii, famoso per la sua caratteristica forma ad occhiale (persa a dire il vero in questa arida stagione) e per la leggenda secondo cui nelle sue acque si sarebbe inabissato carro, buoi che lo trainavano ed il suo insolito carico che rispondeva al nome del prefetto romano  Ponzio Pilato noto per le vicende giudiziarie di Gesù, è un minuscolo specchio d’acque cristalline di colore verde smeraldo che ogni anno richiama centinaia e centinaia di escursionisti.
Da qualunque parte lo si voglia raggiungere almeno tre ore si impiegano per arrivare sulle sue sponde e sempre e comunque circa 1000 metri di dislivello occorrerà superare; così isolato eppure così frequentato. Nei mesi di Agosto, di tutto e di tutti ho visto sulle sue sponde: famiglie intere, bambini e signori corpulenti in infradito signore non proprio annoverabili tra la categoria degli escursionisti; bagnanti distesi al sole con tanto di costume ed asciugamano ed anche intrepidi irresponsabili intenti in improbabili pediluvi nelle sue gelide acque.
Una meta insomma, questo laghetto, per una serie di unicità, ma soprattutto, come mi piace dire, perché una volta lì ci si sente isolati, come in un centro di gravità, in un centro dove tutte le linee convergono, nel punto più alto di una valle e nello stesso tempo nel punto più basso di una conca detritica.
Il fascino del posto è assolutamente unico ed è per questo che al lago di Pilato si va, si torna e ci si ritorna ancora sapendo che mai sarà l’ultima volta.
Da Foce parte forse il più classico dei sentieri verso il laghetto, contrassegnato sulle carte dal n° 151. Un sentiero incassato in una valle sinuosa e profonda, accerchiata da un quasi anello di creste tra le più belle dell’intero Appennino.
Foce con i suoi 950 metri di altezza è già di per sè un paesino minuscolo al culmine di una stretta ed confinata valle, quella del fiume Aso; un pugno di case, a tratti isolato nel periodo invernale e regno dell’acqua fino a qualche anno fa, prima che in consorzio intercettasse le acque della sorgente dell’Aso, ridotto oggi ad un minuscolo ruscello di montagna. L’accesso al paese è stato anche protetto da una galleria nel tratto più stretto della valle  dopo che qualche anno fa una valanga proveniente dai ripidi pendi del Monte Sibilla lo isolasse dal resto del mondo.
Lo si raggiunge dal lato marchigiano della provincia di Ascoli Piceno da Montemonaco; per noi romani è un viaggio raggiungerlo ed è per questo forse che il classico percorso che vado a descrivere e consigliare non è poi così tanto frequentato dagli escursionisti che provengono dal versante tirrenico.
Facile raggiungere Foce; dalla Salaria, prima di raggiungere Ascoli Piceno si gira sulla sinistra per Roccafluvione e poi Montemonaco; da lì frequenti cartelli turistici condurrebbero anche uno sprovveduto verso Foce e l’attacco del percorso.
Raggiunto il paese di Foce lo si supera fino ad uno spiazzo dove tracce di recinto e qualche cartello di divieto dovrebbero sbarrare le velleità di proseguire in auto. Siamo all’inizio del Piano della Gardosa, una ampia e lunga radura ombrosa, tanto è incassata tra le alte montagne tutto intorno, dove il sentiero è evidente e conduce dove lo sguardo viene attratto, verso la valle sempre più stretta che sale e che si perde nello sperone roccioso dello Scoglio del Lago, più comunemente chiamato Pizzo del Diavolo,  là, sul limite dell’orizzonte.
Una bella giornata di Novembre, come ho avuto la fortuna di poter vivere con Marina, è il momento ideale per salire al lago da questo versante. Non era stata programmata questa escursione; una consultazione del meteo, una finestra di bel tempo breve e propizia si prestava alla perfezione ed è stato deciso su due piedi, la sera prima. Arriviamo tardi al parcheggio, dopo le 9;  fa freddo, il sole non entra in valle se non nelle ore più centrali della giornata, ma il senso di silenzio e solitudine ripaga di tutto. Per quasi tre chilometri si sale lentamente, c’è tutto il tempo di mirare l’imponenza della Sibilla che ci domina dietro di noi ed i ripidi contrafforti che salgono a sinistra verso il Banditello e a destra verso il Palazzo Borghese e l’Argentella; solo negli stretti canaloni che tagliano le coste rocciose si riescono ad intuire le vette di queste montagne, eppure sono vicinissime in linea d’aria. Salendo si può tenere il centro della valle anche se sulla destra la stessa viene percorsa da una sconnessa carrabile; le linee convergono in un unico punto là in fondo, dove inaccessibili sembrano i repentini salti che vanno a cambiare radicalmente lo scenario. Foce si trova a 945 metri di altezza, intorno ai 1000 si parcheggia la macchina, quasi tre chilometri più su, a circa 1450 metri di altezza si inizia finalmente a salire.
I repentini salti rocciosi che sembrano sbarrare la valle e che determinano la fine del Piano della Gardosa si fanno superare sulla sinistra, per ripide svolte brecciose, qualche anno fa regimentate e custodite, oggi tornate allo stato selvaggio dopo una recente e distruttiva slavina che ampi segni ha lasciato nel bosco di fondo valle. Manco a farlo apposta questo breve e ripidissimo tratto viene tracciato appunto come “Le Svolte” sulla carta; poche centinaia di metri di avanzamento compensato da quasi trecento di dislivello superati repentinamente. Il tratto più selvaggio dell’intero percorso, affascinante e nettamente in contrasto con il prima ed il dopo. Superato il salto si entra nella Valle del lago di Pilato, il sentiero è ora più evidente, leggermente in maggiore costante pendenza, sinuoso tra le “colline” di fondo valle. Massi erratici, radure e mano a mano che si avanza, piede a piede forse sarebbe più adatto al momento, pietraie e sfasciumi che scendono dalle creste circostanti dominano il paesaggio. La nostra sinistra è dominata dall’uniforme ripida pendenza fatta di erba e rocce delle coste del Monte Torrone; la vetta del Vettore si intuisce ma non si vede. Sulla destra lo spettacolo e più imponente; la cresta del Redentore, la presenza sempre più catalizzante dello sperone roccioso del Pizzo del Diavolo ci portano in un ambiente di vera montagna mentre le pietraie e gli sfasciumi che dalla cresta di Cima dell’Osservatorio fino a quella del Redentore scendono levigate e monotone ci portano col pensiero alle lontane Dolomiti.
Mentre con Marina salgo lentamente sopraffatto dall’unicità di ciò che mi circonda i pensieri risalgono alla mia prima volta da queste parti che corrispondeva poi alla mia prima vera escursione in montagna. Molto è diverso da allora, quasi trenta anni fa; il senso di fatica, di lunghezza del percorso, di irraggiungibilità di quel benedetto lago, erano le emozioni predominanti allora, mentre tutto ora è molto più familiare, più conosciuto, quasi una parte di me. Eppure i due sentimenti contrastanti tra loro li sento così vicini, quasi accumunati, uno ha partorito l’altro. Allora, trenta anni fa,  l’avventura di andare a cercare quello specchio d’acqua sperduto, percorrere quel sentiero sulle uniche, vere montagne della mia regione mi riempivano di esaltazione; oggi, dopo tante vette e tanti chilometri percorsi, ripercorrere gli stessi passi, guardare dal basso quei posti così conosciuti e battuti, guardare l’enorme mole dello Scoglio del Lago e quasi vedere il lago alle sue falde mi davano un senso di quiete, di felicità interiore. Ero a casa.
Il sentiero sale costante, si fatica poco e nemmeno ci si rende conto che si stanno per raggiungere i 1945 metri di altezza dove il lago riposa quieto. Intorno il silenzio è assoluto, le montagne immobili e quasi aride, verso Nord la Sibilla non ci ha abbandonato un attimo, anche il suo sfregio non sembra più tale tanto tutto è così familiare ed unico.
Il Picco del Diavolo, sempre più verticale sopra di noi, ci sta annunciando il lago; non rimane che salire le ultime alture pietrose che sono poi il vero sbarramento alle acque. Per me ora conta solo vedere il luccichio dello specchio d’acqua.
Che è minuscolo rispetto alle mie ultime visite; completamente separati sono le due “lenti; la caratteristica forma ad occhiale in questa stagione avara di pioggia non esiste più. Ora i laghi sono distintamente due, separati da cento metri e più di detriti rocciosi risalenti ai periodi glaciali. Lo specchio d’acqua a Nord è parzialmente ghiacciato, quello a Sud lo è completamente. Intorno, ma veramente tutto intorno  le pietraie che scendono a formare un cono glaciale maestoso sembrano immutabili nel tempo; la sensazione è più che mai quella di essere nel centro di qualche cosa di unico.
Oltre noi sono pochi gli escursionisti presenti intorno ai laghetti; prevale il silenzio ed il senso di rispetto per il luogo.
Per quello che mi riguarda non ci sarà mai posto in montagna più fascinoso.
Approfittiamo di una situazione di luce incantevole per fissarci e fissare i colori del lago, del cielo e delle montagne in quelle foto che so già non renderanno mai giustizia alle emozioni di quel momento, poi rimaniamo per qualche attimo a gustarci la splendida solitudine di quello scrigno di mondo.
Ripartire è inevitabile ma lo si fa a malincuore; eravamo rimasti soli e c’erano solo i nostri respiri a crinare l’incantevole unicità di quel momento. Spirito bisognerebbe essere, per non esserci ed esserci nello stesso tempo, per non disturbare l’equilibrio ma per potersi gustare l’essenza di quel luogo unico.
Un passo verso il ritorno e so già che tornerò.
Il ritorno è ovviamente per lo stesso sentiero tanto è incassata la valle; le quasi tre ore di salita vengono ridotte ampiamente a meno di due al ritorno. La fine di Novembre porta presto l’oscurità in questa “ferita” della terra e la temperatura scende rapidamente. Foce è la in fondo, poche case e ancor meno camini che fumano testimoniano una fuga umana che anticipa l’inverno.
Per fortuna la Taverna di Mantagna, unico e sempre aperto ristorante di questo avamposto ci scalda con i suoi enormi camini pari solo al gustoso agnello che colmerà presto il mio piatto prima e la mia fame subito dopo.